I Maid Cafe di Akihabara

Siamo a Tokyo da un paio di giorni ed è giunto il momento di fare un’esperienza fondamentale per l’interpretazione della società giapponese.

Chiunque abbia studiato qualcosa di Tokyo non può non essersi imbattuto in un fenomeno tutto locale chiamato Maid Cafe. Io ne avevo già sentito parlare, ma non riuscivo a rendermi precisamente conto di cosa fossero. Quindi, cosa meglio di una visione diretta?

Sono le tre di pomeriggio quando sbarchiamo dalla metropolitana ad Akihabara e, una volta giunti in superficie, ci ritroviamo immersi in un gigantesco fumetto tridimensionale. I grattacieli del quartiere sono letteralmente tappezzati di cartelloni giganti con immagini di personaggi manga… o anime… o quello che sono (come si può intuire non ho mai amato molto i cartoon giapponesi). Ce ne sono centinaia ed io, che sono rimasto a Candy Candy, non li distinguo. Sulla strada una miriade di negozietti che vendono pupazzetti di tutti i suddetti personaggi, la maggior parte dei quali sono donnine molto giovani e molto poco vestite… Ma in tutto questo tourbillon la cosa che lascia maggiormente sbalorditi è la sorprendente quantità di distributori automatici di pupazzetti, ninnoli, portachiavi e chissà che altro allineati lungo il marciapiede in file interminabili (dell’insana passione dei giapponesi per i distributori automatici potete leggere nel post Giappone: quella strana passione per i distributori).

Passeggiamo frastornati tra la calca finché le vediamo apparire: sono le maid, ragazze giovanissime abbigliate con cortissime ed ammiccanti divise da cameriere ottocentesche, con tanto di grembiulino e cresta. Distribuiscono ai passanti volantini pubblicitari del locale nel quale lavorano, invitandoli ad entrare. Ce ne sono dovunque sulla strada. Non ci facciamo pregare ed abbordata quella più vicina ci lasciamo condurre nei meandri del palazzo di fronte. Un tizio silenzioso ci accompagna attraverso corridoi, scale e un ascensore privato. Se non fossimo in Giappone la cosa incuterebbe un po’ di timore.

Veniamo finalmente introdotti in uno stanzone che ci lascia tutti attoniti. Sembra di entrare in un asilo infantile, le pareti riproducono un cielo azzurro pieno di nuvolette, i tavoli sono piccoli e bassi e dovunque cuori, cuoricini, faccine, palloncini… Una ragazza all’apparenza ancora più giovane della prima ci accoglie con un grande sorriso e, prima di ogni altra cosa, nella tipica parlata cantilenante delle giovani nipponiche, dice di chiamarsi Mieow-Mieow, o qualcosa del genere, e ci ammonisce con un “no photo, no touch…”. Visto il nostro smarrimento, ci fa un cuoricino con le dita e ci accompagna al tavolo dove, senza alcun preavviso, ci piazza sulla testa delle orecchie finte. A me toccano quelle da coniglio rosa che mi donano un’aria un tantino inquietante. Quindi accende una candela elettrica e ci invita a ripetere con lei qualcosa come “Moe Moe”, facendo strani gesti con le mani.

Ce ne sarebbe già abbastanza per alzarsi ed andare via, ma guardandomi attorno comincio ad interessarmi agli altri avventori. La nostra Mieow-Mieow infatti, dopo averci consegnato il menù, finalmente si allontana un attimo, lasciandoci il tempo di guardarci attorno.

Nella sala ci sono: una comitiva di giovani in camicia e cravatta, probabilmente “salarymen”, una coppia di ragazzi silenziosi, inoltre un ragazzo in divisa scolastica ed un signore anziano entrambi soli. I componenti del gruppo sembrano più imbarazzati che divertiti, mentre i due avventori solitari hanno una faccia triste che si anima solo quando la loro cameriera li coinvolge in qualche attività demenziale, come se fossero lì solo per trovare un po’ di artificiale calore umano. E in effetti, pare che questi locali siano nati per gli  otaku (i fanatici di fumetti e tecnologia che, vivendo nella difficoltà di intrattenere rapporti sociali con il sesso opposto, qui possono sentirsi a loro agio godendo delle attenzioni di belle e giovani ragazze), ma poi abbiano riscontrato l’interesse di ogni genere di persone.

Mentre sono assorto in queste riflessioni, mia moglie, leggendo il menù, ha scoperto il perché del “no photo” intimatoci all’ingresso, le foto alle ragazze infatti si pagano (per il “no touch” invece niente da fare in assoluto…). C’è inoltre un vocabolario speciale che dovremmo utilizzare per rivolgerci alla cameriera, così scopriamo che il bagno è il “flower garden” e l’ascensore, un non meno bizzarro “dream jet”. Il mio amico Marco quindi ne approfitta subito per andare a rinfrancarsi nel giardino fiorito…

Il prezzo del biglietto di ingresso ci consentirebbe di rimanere per un’ora, ma dopo aver consumato le nostre colorate, care e quasi disgustose consumazioni, salutiamo Mieow-Mieow e ci infiliamo nel “dream jet” che ci deposita sani a salvi sulla strada.

In definitiva è stata un’esperienza surreale ma interessante e credo che per un osservatore occidentale, se si è in compagnia e si riesce ad entrare nello spirito giusto, può anche essere divertente (l’immagine di Marco con le orecchie da orsetto rimarrà per sempre indelebile nella mia memoria).

A proposito, nonostante le divise delle cameriere siamo sessualmente ammiccanti, non vi è assolutamente nulla di morboso ed i bambini posso tranquillamente accedere, anzi, probabilmente loro saranno quelli che si divertiranno di più…

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