India. Uno schiaffo in volto

Con il nostro gruppo ci addentriamo per i vicoli della città vecchia di Nuova Delhi. Dopo aver sperimentato, senza grandi risultati, una formazione a testuggine, decidiamo di dividerci in piccoli gruppi, più agili per destreggiarsi nella bolgia di gente e bancarelle, ma sufficienti ad affrontare l’inevitabile assalto.
Anche la città vecchia non tradisce il suo nome. E’ vecchia. Ma di un vecchio che non si può nemmeno descrivere.
Le case sono sporche e malridotte, e sulle nostre teste si distende un groviglio di cavi elettrici selvaggio ed inestricabile. Si ha l’impressione che nulla sia mai stato oggetto di manutenzione fin dalla notte dei tempi.

Praticamente ogni locale al piano terra ospita un negozio. Anche qui la concezione di attività commerciale è un po’ sui generis. Si tratta per lo più di loculi di non più di 3 metri quadrati, senza vetrina, le cui merci strabordano fin sulla strada. Lo spazio per il negoziante si limita a quello necessario per fargli assumere una posizione ‘accucciata’ (tipica qui in India e assolutamente impossibile da sostenere per noi occidentali). Spesso però non c’è nemmeno questo spazio vitale ed il titolare deve stazionare sulla via antistante.
Se a questa moltitudine di attività commerciali, sufficiente già di per sé a riempire gli stretti vicoli, si aggiungono risciò, motociclette (in India ce n’è una quantità paragonabile a quella delle biciclette in Cina) e pedoni in gran profusione, si può avere una pallida idea di cosa voglia dire percorrerli con la scritta ‘turista’ stampata in fronte.
E per fortuna che qui a Delhi non ci sono le vacche!

Scovato sulle guide un ristorante caratteristico nei paraggi, ci parcheggiamo lì fino a sera inoltrata e, una volta ritornati in strada, ci rendiamo conto che lo scenario è cambiato. Per quanto sembri impossibile, c’è ora molta più gente, a tal punto, che siamo costretti a camminare in ‘fila indiana’ (ecco forse da cosa deriva l’espressione!) tenendoci per mano l’un l’altro per non perderci. I bambini ed i mendicanti sono ora così numerosi che, a causa della carenza di spazio, ci si incollano letteralmente addosso. Ad alcuni di noi strappano dalle mani le bottigliette di bevande semivuote. Sulla strada, gli ingombranti risciò e le motociclette, a clacson costantemente spiegato, sono imbottigliati in un ingorgo spaventoso e, per riuscire a passare, ci calpestano del tutto incuranti, con le ruote. Ogni attività commerciale spara musica a tutto volume ed il chiasso è assordante. Non c’è illuminazione pubblica e le uniche fonti di luce sono i faretti dei negozi e i fari delle moto. 

Per rendere ancora più catastrofica la situazione, ogni tanto incontriamo dei gruppetti di persone sedute per terra, in assoluto silenzio e con le mani giunte in preghiera.
“Ma chi sono questi?” mi urla Miriam per sovrastare il rumore.
“E che ne so io!” rispondo tramortito dal caos.
Non impieghiamo molto a capire di cosa si tratta. Sono mendicanti in attesa che qualche ristoratore di buon cuore dia loro qualcosa da mangiare. Cosa che avviene proprio mentre stiamo cercando di superarli. I pezzi di cibo avanzati vengono buttati per strada come si fa con i cani e la ressa per accaparrarseli per poco non ci travolge.

Siamo increduli ed avanziamo come automi nella speranza di tirarci fuori di lì il più presto possibile.
Quando raggiungiamo una piazzetta al termine del vicolo, finalmente riusciamo a respirare e, solo dopo qualche attimo, necessario per riprenderci, ci rendiamo conto di ciò che ci circonda.
Decine di disperati sono buttati ai bordi della strada in mezzo a pozzanghere e sacchi di immondizia. I più fortunati hanno qualche pezzo di lamiera sotto cui ripararsi in caso di pioggia, ma per la gran parte sono allungati, seminudi e sporchi, sull’asfalto lurido. Uomini, donne, vecchi e bambini. Soprattutto bambini. Quando anche le ultime luci si saranno spente, resteranno in balia di topi ed insetti di ogni genere.
Tutto il nostro gruppo osserva ammutolito mentre fa ritorno al pullman.
E lungo la strada le decine diventano centinaia. Sui marciapiedi non c’è neanche spazio per camminare. E, una volta sul pullman, le centinaia diventano migliaia. Il triste spettacolo continua a sfilare senza tregua sotto i nostri occhi che osservano smarriti fuori dai finestrini. E’ un impatto violento con una realtà che avevamo già intuito durante la giornata, ma che ora si presenta in tutta la sua drammaticità.
Per quanto mi riguarda, nonostante mi fossi preparato ad entrare in contatto con situazioni estreme, quanto sto vivendo supera ogni mia immaginazione.
Prima di andare a letto mando un messaggio a mia sorella in Italia: “Ho visto oggi quanto di più simile ad un girone infernale mi sia capitato di vedere nella vita!”

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