Cina:

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Come ogni anno, io e Miriam dopo Natale diamo il via a frenetiche consultazioni in cerca di una meta per le vacanze estive.
Quest’anno però non abbiamo le idee molto chiare e, dopo aver vagliato tutto il globo terracqueo, decidiamo, quasi per sfinimento, che partiremo il 15 agosto per un giro nell’Europa dell’est.
Mi metto quindi al lavoro per organizzare il tutto, quando una mattina Miriam mi si para davanti e mi comunica con decisione. “Ferma tutto. Ho risolto la vacanza”.
“Ah si? E come?” rispondo con un sorrisino ironico.
“Andiamo in Cina con Marina”
Sono confuso. “In Cina …? Con Marina …? E chi è Marina?”
“Non fare lo scemo. E’ la mia amica di Taranto. E’ stata anche testimone nel nostro matrimonio… ricordi?”
Mi torna immediatamente la memoria.
“Va bene, ma che ci va a fare in Cina?”
“Va a trovare il fidanzato che si è trasferito lì per lavoro, così ci ha invitati a raggiungerla”
Ci penso un po’, poi sentenzio solennemente: “Ok. Allora andiamo in Cina”.

Mi metto quindi davanti al computer per cercare un volo a buon mercato. “Chi vuoi che vada in Cina!” mi dico con esagerato ottimismo, ma dopo un’ora di disperate ricerche, di biglietti economici neanche l’ombra.
Comincio quindi a vagliare quelli ‘sufficientemente accettabili’, fino ad arrivare ai ‘quasi inarrivabili”. In questa categoria riesco finalmente a trovare quattro miseri posticini su un volo Air France…

La Cina. Dunque. Cosa so io della Cina? Mao Tze Dong, ping-pong, L’ultimo Imperatore… troppo poco!
Sembra che la Cina in agosto sia uno dei posti più infernali del mondo: caldo, umidità, piogge, tifoni…
“Le valigie saranno leggerissime” concordiamo all’unisono, e per la prima volta in vita nostra riusciamo a far entrare tutto in appena due trolley!

1° Giorno – PECHINO

Dopo un poco memorabile volo Air France, all’aeroporto troviamo la prima piacevolissima sorpresa. Marina, l’amica di Miriam, ed il suo fidanzato Francesco, sono venuti a prenderci e, mentre gli altri turisti si affannano per cercare di districarsi nella jungla di taxi multicolori all’uscita dell’aeroporto, noi ci sistemiamo comodamente nel pulmino con autista che i nostri amici hanno affittato per l’occasione.

I due, che sono qui già da qualche giorno, ripartiranno questa sera alla volta di Suzhou, lasciandoci come gradita eredità sia il pulmino che l’autista.

Il primo impatto con Pechino è sconvolgente. Assolutamente nulla di ciò che avevo immaginato. Una città modernissima, ma estremamente disordinata. Migliaia di palazzoni enormi ed anonimi sono sorti e continuano a sorgere (la strada dall’aeroporto al centro è una sequela interminabile di cantieri) senza alcun apparente disegno urbanistico. Le larghissime strade, simili alle highway di Los Angeles, sono intasate da un traffico caotico fino all’inverosimile.

Se non fosse per le scritte dei negozi e per la fiumana di biciclette, si stenterebbe a credere di trovarsi in Cina.
Il primo pensiero che mi corre per la mente è: cosa succederà quando qualche centinaia di migliaia di questo milione di ciclisti potrà comprarsi un’automobile?!

Mentre guardiamo rapiti l’incredibile spettacolo, Francesco comincia a fornirci qualche utile consiglio di sopravvivenza.

“Se volete conservare la vostra incolumità, la prima cosa che dovete ricordare è che qui gli automobilisti sono dei pazzi criminali…” e non ha ancora ultimato la frase, che una macchina sbuca a tutta velocità da una strada laterale tagliandoci la strada e costringendo Zhao, il nostro autista, ad una frenata brusca. Ci aspettiamo qualche sana bestemmia come reazione, invece nulla. Come se niente fosse, Zhao innesta la marcia e riparte senza dire una parola.

E’ questa la nostra prima lezione sulla filosofia di vita di questo popolo. Dopo svariate centinaia di anni di muta sopportazione, i cinesi hanno perso l’abitudine di protestare. Nulla li può scuotere dalla loro imperturbabile rassegnazione e, durante il nostro viaggio ne avremo numerose riprove.

Evitati per un pelo una dozzina di auto e qualche centinaio di ciclisti, arriviamo finalmente in albergo, piuttosto scossi.

Il nostro hotel, prenotato dall’Italia via Internet, è un siheyuan ristrutturato. Si tratta di una antica residenza tipica del luogo, nella quale, dicono abbia dormito il primo ministro inglese durante la sua visita in Cina, ma mi sento di nutrire qualche dubbio in proposito. La struttura è ad un piano e tutte le stanze si affacciano su un cortile centrale molto suggestivo, soprattutto la sera, quando vengono accese delle lanterne rosse appese davanti ad ogni porta. Le stanze sono piccole, ma arredate con mobilio tradizionale. Insomma, quello che ci voleva dopo lo scioccante impatto con la ‘nuova Cina’.

Il tempo di una doccia e siamo subito in pista. A dire il vero, dopo il lungo viaggio e una notte totalmente insonne a causa del fuso (e dei tremendi sedili), siamo distrutti, ma vogliamo far fruttare al massimo il tempo a nostra disposizione.

Dopo aver riaccompagnato Marina e Francesco all’aeroporto, il nostro autista torna a prenderci e, prima di mettersi in moto ci mostra un foglio su cui è stampato un itinerario dettagliato dei tre giorni seguenti. Non parla inglese, e men che meno italiano, quindi non riusciamo a capire cosa voglia comunicarci.

E qui è bene aprire una parentesi importante. In Cina nessuno parla inglese, se non qualche sporadico addetto al turismo o negoziante intraprendente. Le conversazioni, quindi, si svolgono alla stessa stregua di quelle tra due sordomuti che non conoscono il linguaggio dei segni. Scrivere non serve a nulla, perché loro non sanno leggere i caratteri occidentali, né noi i loro incomprensibili ghirigori. Ma la cosa drammatica è che anche la gestualità è totalmente differente, quindi, potrete sbracciarvi quanto volete ballando il ‘ballo del qua-qua’ nel tentativo di mimare un’anatra (abbiamo fatto anche questo). Non vi capiranno.

Per fortuna sembra che i giovani, oltre che scimmiottare la moda occidentale, comincino anche ad interessarsi allo studio dell’inglese e nel futuro le cose potrebbero cambiare.

Ma torniamo a noi.

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Dopo una estenuante battaglia verbale con il nostro autista, riusciamo a capire che quello che ci ha mostrato è il nostro programma di visita. Non conoscendo i cinesi la parola ‘anarchia’, così cara a noi italiani, devono sempre attenersi ad un qualche programma, quindi l’agenzia, in mancanza di altre indicazioni, ci ha preparato un itinerario a sua discrezione.

Nei giorni successivi, evadere dal programma ufficiale sarà tanto difficile quanto divertente.
Per ora siamo troppo stanchi per discutere, quindi, ci facciamo portare buoni buoni alla nostra prima meta: la Città Proibita.

Prima di ogni altra cosa, però, dobbiamo recarci in un ufficio turistico per acquistare i biglietti degli aerei e dei treni che utilizzeremo nei prossimi giorni per i nostri spostamenti.
L’AVVENTURA –  Gli uffici pubblici cinesi

Entriamo nella sede del CITS, l’ufficio statale per il turismo cinese, una moderna costruzione tutto vetro e cemento, dove veniamo accolti da un gentilissimo impiegato che, in un inglese comprensibile, in men che non si dica esaudisce tutte le nostre richieste. Stiamo già complimentandoci per l’inaspettata dimostrazione di efficienza quando, arrivato il momento di pagare, tiriamo fuori le carte di credito… ed inizia la nostra Odissea. Senza scomporsi, l’impiegato fa cenno di seguirlo e ci accompagna in una stanza al piano superiore. Qui un altro impiegato ci invita a compilare un modulo piuttosto dettagliato, quindi ci accompagna in una seconda stanza, dove consegniamo le carte di credito. Alla terza stanza, cominciamo ad avere il sospetto che le cose non saranno così semplici. Io ed il mio amico Gianni, esterrefatti, ma al contempo affascinati da tanta organizzata disorganizzazione, continuiamo nel nostro via vai tra corridoi, scale ed ascensori per prendere le ricevute, firmare le ricevute, riavere le carte di credito… il tutto rigorosamente in stanze diverse. E’ una burocrazia a compartimenti stagni che ti ipnotizza togliendoti ogni velleità di reagire.

Finalmente facciamo ritorno a pianterreno con le nostre belle ricevute di pagamento che consegniamo all’amico impiegato, il quale ci comunica con un largo sorriso che i nostri biglietti sono nel terminale e basta farli uscire dalla stampante. Data la sua immobilità, però, questa operazione non sembra interessarlo particolarmente.

“Beh, e perché non lo fa?” accenna timidamente Paola.

“Perché è mezzogiorno e io sono in pausa. Ci dobbiamo rivedere più tardi” è la risposta del nostro ineffabile amico, il quale prende una pesca dal cassetto della sua scrivania e se ne va da una porta secondaria lasciandoci tutti a bocca aperta.

Queste poche ore in terra cinese ci hanno già fatto capire dei suoi abitanti più delle decine di libri e guide che eravamo riusciti a leggere prima di partire. Ma ogni minuto che passa facciamo qualche nuova scoperta. Ad esempio, cominciamo a nutrire il sospetto che il nostro taciturno Zhao sia un membro dei servizi segreti, in quanto non ci lascia un attimo da soli e ogni volta che scendiamo dalla macchina ci segue come un’ombra.

Ripresa la marcia di avvicinamento alla Città Proibita, parcheggiamo l’auto nei pressi di piazza Tian’anmen, e naturalmente Zhao vorrebbe accompagnarci anche dentro il sito, ma stavolta siamo irremovibili: la visita la vogliamo gestire secondo i nostri tempi. Quando finalmente riusciamo ad avere ragione di Zhao, con nostra grande sorpresa ci accorgiamo di essere attorniati da decine di persone che ci osservano con attenzione, facendo commenti fra di loro.
“E questi che vogliono?” accenna Gianni
“Boh. Uno mi ha anche messo il braccio sulla spalla per sentire meglio” replica Paola.

E’ il nostro primo impatto con la smodata curiosità dei cinesi, e la loro assoluta mancanza di pudore. Durante il viaggio ne avremo molti altri esempi, alcuni esilaranti.

Finalmente soli, ci soffermiamo un attimo su uno dei ponti che accedono alla Città Proibita per dare uno sguardo all’immensa piazza che si apre davanti a noi. A causa delle molte costruzioni presenti al suo interno, non se ne ha una comprensione globale, ma volendola girare a piedi, ci si accorge della sua vastità. Tutt’attorno i palazzi del potere e, appena alle sue spalle, una gigantesca struttura moderna che sembra un pallone pressostatico fuori formato. La guida dice che è il nuovo, criticatissimo, Teatro dell’Opera.

Mi tornano alla mente le immagini in bianco e nero dei telegiornali di quando ero bambino che mostravano questo immenso spiazzo percorso da carri armati e soldati in parata, sotto lo sguardo (stavolta reale) di Mao e di un’altra serie di cariatidi in pigiama e berrettino. Gli stessi pigiami e berrettini che vedo indosso ad un gruppo di tizi che mi passano a fianco. I volti segnati, probabilmente contadini dell’entroterra venuti in visita nella grande capitale, saranno gli unici ad indossare le vecchie divise maoiste, che vedremo in tutto il viaggio.

Il giro nella Città Proibita è lungo e, per noi, piuttosto faticoso. Per fortuna il cielo è un po’ coperto ed il caldo è sopportabile.
Il sito è una serie ininterrotta di grandi piazze e costruzioni in legno, molto diverse dal nostro concetto di palazzo. Sono in realtà dei giganteschi padiglioni ad un piano aperti verso l’esterno. Abbandonati a sé stessi per lunghi anni, molti sono stati restaurati. Purtroppo non è consentito entrarvi e le loro decoratissime sale si possono vedere solo attraverso delle vetrate, sempre che si abbia voglia di ingaggiare incontri di lotta libera con la muraglia di visitatori che vi stazionano davanti.

Al termine della visita non abbiamo voglia di tornare da Zhao, così, eludendone la sorveglianza, ci spingiamo fino all’immenso (è l’ultima volta che uso questo termine, tanto in Cina è tutto immenso) parco del lago Beihai, uno dei tanti polmoni verdi della città. Qui affittiamo un pedalò e ci rilassiamo sull’acqua, ipnotizzati dallo splendido paesaggio e … dall’insistente cigolio dei pedali, che avrebbero bisogno di una bella oliata.

Dopo esserci fermati in un baretto a mangiare un Magnum Algida (sorprendentemente, sono i gelati più diffusi in tutta la Cina), ritorniamo al pulmino, prima che Zhao decida di denunciare la nostra scomparsa
alla temibile polizia cinese.

Tornati in albergo evitiamo di allungarci sul letto, per non rischiare di addormentarci. Sono quasi 36 ore che non chiudiamo occhio, ma in questa lunghissima prima giornata abbiamo un’altra importante incombenza che nessuno vuole perdere: l’anatra laccata!

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Zhao ci porta in uno dei più antichi e famosi ristoranti di Pechino specializzati in questa prelibatezza: il Quanjude Roast Duck Restaurant.

L’ingresso in questo tempio dell’anatra alla pechinese è sconvolgente. Il locale è immenso (accidenti, ci sono ricascato) e sovraffollato. Dopo aver ritirato un numero da una avvenente ragazza in costume tradizionale, veniamo parcheggiati in una specie di sala d’attesa, attrezzata con sedie sistemate a platea, nella quale una cinquantina di persone attendono pazientemente il loro turno. Chiaramente i numeri vengono di volta in volta annunciati in cinese, quindi, messo il nostro orgoglio nel cassetto, preghiamo Zhao di rimanere con noi per avvertirci quando saranno chiamati i nostri.

Sulla parete di fondo di questa affollata ‘antisala’, una grande vetrata si apre sulle cucine dove, sotto i nostri occhi rapiti, una squadra di cuochi prepara, come in una catena di montaggio, una enorme quantità di volatili. L’interminabile fila di anatre appese per il collo a mò di impiccato, dà una certa credibilità al vistoso display luminoso attaccato nella sala da pranzo, il quale aggiorna il numero degli uccelli che sono stati sfornati dall’apertura del locale: ad oggi ben 118 milioni. Una strage!

La cena viene servita secondo un rituale rigoroso ed un po’ asettico. Un cameriere in mascherina e guanti da chirurgo, raggiunto il nostro tavolo con un’anatra grande quanto un tacchino adagiata su un carrello, ci seziona abilmente l’animale ricavandone sottili fette di carne e pezzi di pelle croccante, che ci invita a mangiare dentro delle frittelline di pane con l’aggiunta di verdure ed una salsa scura e dolciastra. Dopodiché, con un colpo netto le taglia la testa e la spacca a metà, poggiandola con cura sul tavolo come un oggetto particolarmente prezioso. In effetti è questa la parte più ambita dai cinesi che la considerano una vera leccornia, ma per noi sarà una presenza inquietante per tutta la durata della cena. La distribuzione di un brodino conclude l’operazione.

Che dire? Tralasciato il brodino (e, naturalmente, la testina) che è oleoso e insapore, tutto il resto è semplicemente divino. Il conto, poi, è quasi ridicolo, ma non immaginiamo ancora che questo sarà il pasto più costoso di tutto il viaggio!

 

Distrutti, ma felici, raggiungiamo l’albergo dove finalmente ci tuffiamo nei nostri graziosi lettini di legno e bambù, accompagnati dal canto dei grilli.

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2° Giorno – PECHINO

La mattina dopo ci ritroviamo nella sala della colazione dove è esposta tutta una serie di cibi misteriosi che gli avventori locali mangiano di gusto accompagnandosi con brodini caldi e verdure bollite.

Ho già avuto modo di illustrare la frenesia gastronomica che caratterizza i miei viaggi all’estero, ma devo ammettere che un brodino con le verdure in prima mattina non riesce proprio ad attirare la mia curiosità. Prendiamo quindi un tea ed un po’ di frutta e usciamo in strada dove Zhao ci sta già attendendo, chissà da quanto, con il temuto programma in mano. Veniamo quindi a sapere che per la mattinata è prevista la visita al Tempio del Cielo, cui farà seguito, nel pomeriggio, il Palazzo d’Estate.

L’itinerario non ci soddisfa. Noi vogliamo visitare prima il Palazzo d’Estate e poi la Grande Muraglia, per lasciare il Tempio del Cielo al giorno successivo, ma questo è decisamente troppo per la sua (e la nostra) comprensione linguistica, quindi, preso il telefonino, chiama il suo capo.  Qui inizia una surreale conversazione a tre con Zhao che pone le domande in cinese al suo capo, il quale le traduce a noi in un inglese quasi incomprensibile, quindi ritraduciamo in inglese le nostre risposte al capo, il quale le ritraduce in cinese a Zhao. Il tutto con un solo telefonino che viene passato vorticosamente dall’uno all’altro. E’ difficile crederlo, ma riusciamo a metterci d’accordo e partiamo di gran carriera verso il Palazzo d’Estate.

Veduta dal Palazzo d'Estate

Il viaggio è breve e, dopo la solita mezza dozzina di incidenti evitati miracolosamente lungo la strada, raggiungiamo questa antica residenza estiva della corte imperiale, vero rifugio dall’insopportabile calura della Città Proibita. Come al solito, non si tratta di un palazzo propriamente detto, ma di una serie di padiglioni e templi sparsi attorno ad un lago ed avvolti da una rigogliosa vegetazione. Il posto è incantevole, anche se stracolmo di turisti. Durante la visita abbiamo la conferma di ciò che avevamo intuito il giorno precedente. I turisti in Cina sono quasi tutti cinesi che, forse iniziando a godere di una certa disponibilità economica, affollano praticamente ogni angolo del loro paese.

E’ comunque estremamente piacevole passeggiare tra i vari camminamenti che costeggiano il lago, superando ponticelli che si affacciano su distese di fiori di loto.
Oggi è una giornata serena e la calura si fa sentire, ma la fitta vegetazione ed i molti porticati, offrono continue possibilità di refrigerio. Cosa che non si può dire della scalinata che conduce alla “Torre dei profumi Buddisti” che i miei compagni mi costringono a salire per poter ammirare la vista dall’alto. Il percorso, infatti, è scoperto ed arrivo in cima boccheggiante, giusto in tempo per ottenere un clamoroso schiaffo morale da una signora, salita prima di me, così vecchia da sembrare millenaria e che per di più ha dei piedi minuscoli, nel rispetto di una tradizione molto in voga nel passato ed oggi fortunatamente messa al bando.
La signora in questione, infatti, complice anche l’età, è costretta a camminare in modo malfermo e deve reggersi continuamente per non cadere. Vedere caracollare questa vecchietta sui suoi moncherini è al contempo emozionante e commovente.

Giunti alla fine del giro e dopo aver ammirato, tra le altre cose, una improbabile nave di pietra ormeggiata sulle rive del lago, prendiamo un battello (vero) che ci riconduce all’uscita. Durante il breve tragitto Paola si produce in una accanita conversazione con un gruppo di studenti coreani che, una volta conosciuta la nostra nazionalità, ci accolgono con l’ormai consueto “Italiani. Buffon … Totti … Del Piero …”. E’ singolare come, in barba a millenni di cultura, l’unica immagine dell’Italia che riusciamo ad esportare è quella dei nostri calciatori.

Recuperato Zhao, partiamo immediatamente alla volta della Grande Muraglia.

Il nostro amico Francesco ci aveva consigliato di non farci portare a Badaling, sempre affollato di turisti, ma a Mutianyu, ugualmente bello e meno frequentato. E così facciamo. Il percorso è un po’ più lungo, ma il panorama è tanto incantevole da non lasciarci un momento di distrazione… nonostante le manovre di Zhao che, ce ne accorgiamo ora con una certa apprensione, non sa guidare. Riesce a destreggiarsi benissimo nel folle traffico cittadino, ma appena il percorso si fa più accidentato, le sue carenze di pilota vengono drammaticamente alla luce. A parte la disattenzione delle più elementari norme stradali (sorpassi azzardati, ecc.) affronta le numerose curve in salita sempre in maniera errata, a volte tagliandole troppo, a volte facendo il pelo allo strapiombo che scorre sulla nostra destra, ovviamente privo di guard rail.

 

Siamo concentrati su tutto ciò, quando, superata una curva cieca, Zhao rallenta e ci indica di guardare in alto. Sul crinale della montagna che abbiamo davanti si stende come un infinito serpentone la Grande Muraglia. Siamo nella leggenda! 

Percorriamo gli ultimi chilometri in preda ad una grande eccitazione e quando arriviamo alla base della seggiovia che ci porterà a destinazione, schizziamo letteralmente verso la biglietteria, dove ci pongono una strana domanda: “come volete scendere?”.

La bigliettaia, visto il mio sguardo inebetito, mi porge un depliant, dal quale apprendiamo con sgomento che hanno costruito un toboga! Per la precisione, un lunghissimo scivolo in acciaio sul quale si scende a folle velocità seduti su delle specie di slitte con le ruote.

Rifiutiamo l’offerta inorriditi e, il tempo di superare lo sbarramento antiuomo dei venditori di paccottiglie, iniziamo la salita.

Il leggero sconforto dovuto al toboga ci passa all’istante osservando l’affascinante panorama delle montagne e la vista sempre più ravvicinata della Muraglia. E, quando finalmente mettiamo i piedi sopra le sue antiche pietre ci sentiamo davvero al ‘settimo cielo’. Lo spettacolo è talmente imponente che siamo portati a parlare sottovoce per non rompere l’incantesimo.
Una cosa del genere mi era capitata soltanto davanti al Grand Canyon, ma questa è un’altra storia.

Le condizioni della visita sono ideali. Non c’è praticamente nessuno e una provvidenziale nuvola copre il sole, evitandoci così anche una copiosa sudata durante le faticose scalate dei tratti più ripidi. La parte aperta al pubblico è ben restaurata, ma si vedono in lontananza dei tratti coperti dalle sterpaglie, alcuni semicrollati, che nella loro autenticità, sprigionano un fascino di eguale, se non superiore, intensità. Prima di andare via ci fermiamo per una decina di minuti su una torretta ad ammirare incantati il paesaggio per l’ultima volta.

Davanti all’ingresso della seggiovia che ci riporterà a valle, Gianni azzarda timidamente: “Non è che vogliamo fare una piccola follia?”
Lo fulmino con lo sguardo, ma subito Miriam e Paola intervengono: “Dai, su. Proviamoci. Magari è divertente. E poi, quante persone conosci che possono dire di essere scese in toboga dalla Grande Muraglia?”

Nonostante i miei dubbi sulla ineccepibilità delle argomentazioni, in un attimo mi ritrovo seduto su un trabiccolo dal quale comincio a temere di rialzarmi con qualche osso rotto.
La discesa, però, è tanto irriverente, quanto divertente, e raggiungiamo Zhao felici come dei bambini. Visto che ormai ho rotto il ghiaccio, però, non mi sembra giusto fare le cose a metà, così compro una bella maglietta con su scritto “I have climbed the Great Wall” e me ne torno soddisfatto dagli altri.

Dopo esserci conquistati l’eterna gratitudine di Zhao con la semplice offerta di un gelato, ritorniamo in città, o almeno così pensiamo, perché lungo il tragitto, il nostro autista ci propone una sosta in un grande magazzino ‘casualmente’ incontrato. 
Miriam e Paola non sembrano per nulla infastidite dalla sosta… anzi! Così ci tuffiamo nella nostra prima esperienza di shopping cinese.
Dopo un paio d’ore di acquisti sfrenati, stanchi ma felici e, soprattutto, carichi di roba inutile, ritorniamo in albergo.
Abbiamo appena il tempo per una doccia e siamo di nuovo in giro per Pechino.
Nonostante la struttura della città non sia di grande interesse, il vero divertimento è osservare il comportamento della gente. Sulle prime siamo un po’ timorosi di urtarne la suscettibilità ridendo delle loro (per noi) strane abitudini, ma quando ci accorgiamo di essere noi stessi oggetto di uguale ilarità da parte loro, non ci facciamo più alcuno scrupolo.

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Basta una breve passeggiata per sfatare la leggenda che vuole i cinesi riservati e silenziosi.
I cinesi sono rumorosi. Molto rumorosi.
Comunicano fra di loro a voce altissima, tanto che, sulle prime, abbiamo sempre l’impressione che stiano litigando. Inoltre, ogni negozio ha un impianto stereo fuori dalle vetrine che spara musica a gran volume per le strade. Il tutto, unito al traffico onnipresente, alle volte ci impedisce perfino di parlare fra di noi.

Se dovessi farmi un’opinione dei cinesi da questi primi passi pechinesi, direi che le loro principali occupazioni siano: mangiare, fumare e… sposarsi.

Per quanto riguarda le prime due, non ricordo di aver visto alcun cinese senza una scodella di cibo o una sigaretta in mano (sarei pronto a giurare che il grande smog di Pechino sia dovuto più al fumo delle sigarette che agli scappamenti delle auto). Alle volte entrambi gli articoli contemporaneamente. Ma la vera curiosità di cui siamo testimoni è la inusuale presenza di un gran numero di agenzie specializzate nell’organizzazione di matrimoni. Sono dei grandi saloni divisi in tanti piccoli salottini dove alle coppiette vengono illustrati tutti i particolari di un moderno matrimonio occidentale. Addobbi floreali, torte nuziali, automobili di rappresentanza. Sembra che qui ne vadano pazzi.

Per quanto riguarda la tanto temuta abitudine di sputare per terra dovunque e comunque, minuziosamente descritta in tutte le guide, sembra che il governo abbia deciso di estirparla una volta per tutte, comminando pesanti multe ai trasgressori. In effetti bisogna dire che nelle strade cittadine il fenomeno è contenuto, ma appena ci si sposta in zone più periferiche e, soprattutto, nelle città vecchie, il tiro al bersaglio è ancora notevole. Col tempo diverremo dei veri professionisti nel distinguere l’intensità del suono prodotto dal ‘raschio’ preparatorio. Più è vicino, maggiore è il pericolo di essere colpiti.

Siamo intenti nelle nostre considerazioni, quando ci imbattiamo in un gruppo di una ventina di aspiranti parrucchieri, disposti ordinatamente sul marciapiede davanti al salone. Hanno tutti una spazzola in mano e ripetono all’infinito i movimenti dell’istruttore, posizionato di fronte a loro. Dire che la scena è inusuale è un puro eufemismo, ma i passanti non ne sembrano minimamente sorpresi.

E’ la prima volta in vita mia che trovo divertente una ‘passeggiata in centro’.

Per le strade c’è una tale quantità di gente che va e che viene da far apparire impossibile che tutti possano avere una qualche occupazione. E a ben guardare, si ha l’impressione che per aumentare l’impiego di una così impressionante mole di persone, i cinesi si siano ingegnati nel creare un serie di attività del tutto superflue. Ad esempio, appostati nei pressi dei semafori ci sono due omini con una bandierina rossa, uno per ogni lato della strada, il cui compito (già di per sé assurdo) è quello di controllare che tutti i pedoni rispettino il semaforo, ma in realtà non fanno altro che agitare la loro bandierina per tutta la giornata assistendo disinteressati alla totale anarchia di pedoni ed auto. O ancora, davanti ad ogni ristorante stazionano permanentemente delle persone addette esclusivamente all’apertura della porta ai clienti che entrano e che escono. E così via.

L’abitudine locale prevede di consumare la cena piuttosto presto, nonostante siano solo le sette, cominciamo quindi a guardarci attorno per cercare un ristorante. Non abbiamo voglia di allontanarci troppo, così ci dirigiamo verso un locale, attratti più dal menù esposto che dalla sua estetica. La sala interna, infatti, sembra strettamente imparentata con quella di uno dei tanti ristoranti cinesi di casa nostra, dall’arredamento un po’ stereotipato e dall’ambiente freddino.

Dopo aver effettuato le nostre ordinazioni, in modo pressoché casuale, da un menù di almeno cinquanta pagine, le cameriere cominciano a parlare fra di loro indicandoci sfacciatamente e, senza alcuna remora di sorta, scoppiano in una fragorosa risata. Scena, questa, che, da quando siamo arrivati in Cina, si ripete con preoccupante frequenza.
E’ ovvio che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. Ma cosa?
La risposta non tarda a giungere: ognuno dei piatti che abbiamo ordinato è di proporzioni esagerate, sufficiente per tutti noi quattro, ed avendo effettuato un paio di ordinazioni a testa, ci ritroviamo a dover consumare una quantità spropositata di cibo!

Al termine di questo pasto nuziale, peraltro buonissimo, ma che siamo costretti a lasciare in gran parte sul tavolo, io e Gianni ci vogliamo concedere l’assaggio del Maotai, un liquore locale molto rinomato, ma la cameriera, venuta a conoscenza delle nostre intenzioni, tenta inspiegabilmente di dissuaderci. Ci guardiamo perplessi, ma poi la cameriera indica con faccia angosciata il prezzo segnato sul menù: 25 yuan (2,5 euro circa) a bicchiere. E’ allora capiamo. Non ci vuole dare il liquore perché per lei costa troppo!

Rassicuriamo la ragazza sulla nostra capacità di poter sopportare una tale spesa e ci beviamo in un sol sorso il bicchierino, ottenendo, così, un pronto riscatto ai suoi occhi.

Il conto ci fa comprendere le preoccupazioni della cameriera, infatti, nonostante i ‘costosi’ bicchieri di liquore, paghiamo 8 euro a testa. Dopo le mazzate continue a cui siamo abituati in Italia, qui è una vera pacchia.

2° Giorno – PECHINO e SUZHOU

Oggi, il ‘nostro’ programma prevede la visita al Tempio del Cielo. Anche qui, più che di un tempio isolato, si tratta di un complesso molto vasto comprendente più templi immersi in un gigantesco parco. A parte le strutture architettoniche, interessanti per i loro significati simbolici, ma dall’estetica piuttosto standardizzata, il vero motivo di interesse del sito lo troviamo nella gran quantità di persone che affolla il parco, ognuna intenta a praticare una attività fisica o ricreativa differente, ma sempre di grande fascino od originalità.
La prima persona che incontriamo, tanto per dare un’idea, è un signore in mutande e canottiera che muove il bacino come se stesse facendo roteare un hula-hop virtuale, al fianco del quale un gruppo di signore attempate si esibisce in un articolato coro polifonico. Poco più in là abbiamo alcuni anziani che eseguono all’unisono, come legati da una corda invisibile, i lenti ed ipnotici movimenti del Tai-Chi.

È tutto un susseguirsi di strane attività, alcune affascinanti, come quella di due giovani signore che, con in mano una specie di racchettone da mare colorato, invece di colpire la pallina, se la passano lentamente ammortizzandola con gesti plateali, altre veramente incomprensibili, come quella di un gruppo consistente di persone che, seguendo gli ordini perentori impartiti da un registratore portatile, con grande serietà e concentrazione… si allungano ritmicamente le orecchie. Gianni, medico nella vita di tutti i giorni, guarda incuriosito, forse pensando di inserire questa terapia tra quelle da lui abitualmente praticate.

E poi ancora, suonatori di pipa, uno strano strumento a corda suonato come un violoncello; giocatori di Go accucciati attorno alle loro scacchiere; persino due signore, una vecchia ed una giovane, che intonano arie di operetta accompagnate dall’immancabile registratore.

Siamo così rapiti che dopo un’ora dal nostro ingresso, non abbiamo ancora iniziato la visita dei templi.

Visitiamo sotto un sole implacabile i vastissimi spazi del sito e, mentre Miriam si accalca tra centinaia di persone per riuscire a mettere il piede su quello che la tradizione vuole sia il “Centro dell’Universo”, una piastra di marmo nel mezzo del Tempio del Paradiso, io mi fermo ad osservare l’ennesimo strano personaggio: un vecchio il quale gira con un pennellone gigante che, intinto continuamente in un secchio d’acqua, utilizza per scrivere a terra degli eleganti ideogrammi cinesi. Dopo tanto assistere, non resisto, chiedo al signore di provare e, sotto il suo sguardo divertito, mi lancio nella composizione di una frase in italiano che sigillo con un mio autografo.

E’ ormai giunto il momento di abbandonare momentaneamente Pechino (ci torneremo alla fine del viaggio) per dirigerci verso Shanghai, e di qui a Suzhou, a casa di Francesco.

Il volo aereo è sorprendente. Chissà perché, ma immaginavamo gli aerei delle linee interne cinesi come delle vecchie carrette tenute assieme con il fil di ferro, invece non solo sono nuovissimi, ma anche molto confortevoli. A dispetto della statura media dei suoi passeggeri, i sedili sono decisamente più larghi rispetto ai normali standard occidentali. L’unico neo, che purtroppo rispecchia un vizio che riscontreremo dappertutto, è l’aria condizionata a regimi pazzeschi.

 

Pensavo che gli americani, in questo particolare settore, fossero campioni indiscussi, ma, come al solito, i cinesi riescono a fare di meglio. Nonostante il caldo sia intenso ed in alcuni momenti quasi insopportabile, siamo costretti a girare con un maglioncino nello zainetto, perché entrare sudati in un qualsiasi luogo chiuso vorrebbe dire sfidare la sorte. E’ probabile che anche un esquimese avrebbe i suoi seri problemi con le gelide temperature prodotte dai condizionatori cinesi. Ed infatti, io, che esquimese non sono, mi ammalo. Per fortuna Gianni, da buon medico previdente, viaggia con una specie di farmacia ambulante, così riesco a tenere sotto controllo il mio stato influenzale.

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Il resto del viaggio… a breve !

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